In periodo di pandemia, le restrizioni che hanno limitato la nostra libertà di movimento hanno fatto sì che il digitale sia entrato di prepotenza nelle nostre vite, diffondendosi in maniera capillare. Il perdurare dello stato di emergenza non ha fatto altro che aumentarne l’utilizzo.
E’ evidente, dunque, anche la necessità di avere una tassazione regolamentata che possa risanare le casse dello Stato, aiutare la ripresa economica del Paese e non creare disparità con le piccole, medie imprese colpite dal Coronavirus.
In particolare, anche l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), con un lavoro che coinvolge 135 paesi, ha più volte auspicato il raggiungimento di un chiaro e strutturato regime fiscale per il settore digitale, in modo da favorirne l’espansione ed evitare ulteriori danni permanenti conseguenti alla crisi economico-finanziaria provocata dall’emergenza pandemica.
Su questo fronte l’Italia è impegnata in prima linea, avendo già introdotto una legislazione specifica in materia. Vediamola allora da vicino.
Che cosa è
La web tax è un’imposizione fiscale che ha come base di calcolo il fatturato prodotto da aziende non residenti fiscalmente entro i confini nazionali, che offrono servizi online, ma eludono la tassazione vigente in quanti prive di sede amministrativa.
La caratteristica dell’immaterialità del servizio offerto fa sì che sia difficile rintracciare, controllare e contenere l’operato dei colossi del web; ciò comporta un’alterazione all’interno del mercato dovuta al vantaggio concorrenziale e fiscale di questi ultimi.
Introdotta dall’articolo 1, comma 35, della legge di Bilancio 2019 (e poi modificata con la Legge di Bilancio dell’anno successivo), la web tax si applica a decorrere dal 1°gennaio 2020. Tuttavia è prevista l’abrogazione dell’imposta vigente qualora entrino in vigore accordi internazionali in materia di tassazione digitale.
L’imposta si applica ai ricavi derivanti dalla prestazione di servizi attraverso un’interfaccia digitale, ovvero un software attraverso cui operano i soggetti passivi d’imposta, erogando servizi quali la trasmissione di dati, la diffusione di pubblicità e l’utilizzo di una piattaforma digitale multilaterale che consente agli utenti di interagire tra di loro, come ad esempio un social network.
Che cosa prevede
Il regime fiscale attuale prevede un’aliquota pari al 3% e si applica alle imprese che durante l’anno solare hanno realizzato introiti per almeno 750 milioni di euro derivanti da servizi digitali, di cui almeno 5 milioni e mezzo conseguiti entro il territorio dello Stato. Il presupposto di imposta è accertato grazie all’indirizzo IP che geolocalizza il dispositivo su cui avviene la transazione. I ricavi sono tassati al lordo dei costi e al netto dell'IVA e di altre imposte indirette.
Adempimenti
Le imprese assoggettate a questo regime fiscale devono effettuare il pagamento entro il 16 febbraio dell'anno solare successivo a quello di riferimento ed entro il 31 marzo dello stesso; inoltre, devono presentare una dichiarazione annuale sull’ammontare dei servizi tassabili forniti.
Per l’anno corrente il termine è stato prorogato al 16 marzo per il versamento e al 30 aprile per la presentazione della relativa dichiarazione.
Web tax transitoria
Un primo tentativo di inquadrare l’argomento risale al 2014 con la Legge di Stabilità, dimostratosi poi fallimentare vista la bocciatura da parte della Commissione Europea. La critica mossa fu quella che la legge contravveniva alla libera circolazione di beni e servizi all’interno dell’Unione: stabiliva, per le aziende operanti nel web, la possibilità di acquistare servizi pubblicitari solo da parte di soggetti con partita Iva italiana.
Pochi anni dopo, con l’introduzione dell'art. 1-bis del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, (convertito, con modificazioni, dalla Legge 21 giugno 2017, n. 96), si inizia a parlare di web tax transitoria. Una procedura facoltativa, che consentiva ai suddetti soggetti la stima degli importi dovuti per l’esercizio della loro attività sul suolo nazionale. Una forma di collaborazione a cui venivano vincolate le grandi corporate, che avevano la possibilità di richiedere all’Agenzia delle Entrate una valutazione sull’esistenza di reddito prodotto che rientri o meno nella base imponibile di calcolo della web tax.
Digital tax in Europa
Nel 2017 l’Unione europea, nello specifico la Commissione, ha presentato due proposte legislative in materia di tassazione digitale. La prima, volta a fare in modo che gli utili siano registrati e tassati dove vi è una forte interazione con gli utenti attraverso canali digitali; la seconda, come risposta alla richiesta degli stati membri di introdurre un’imposta temporanea nei confronti delle attività del settore digitale, per non farle sfuggire all’imposizione fiscale UE.
Nel frattempo alcuni stati europei hanno introdotto ognuno una propria regolamentazione in materia di digital tax, rimanendo in attesa di un accordo globale che possa disciplinare la spinosa questione e allineare il modo in cui viene calcolata al loro interno. Francia, Ungheria, Germania, Spagna e Gran Bretagna sono solo alcuni dei Paesi che, insieme all’Italia, hanno già adottato una propria tassa sui servizi digitali.
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