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LICENZIAMENTO COLLETTIVO E RISOLUZIONI CONSENSUALI: CAMBIO DI ROTTA DELLA CASSAZIONE

Si ribalta l’orientamento: le risoluzioni consensuali non entrano nel numero che prevede l’obbligo della procedura sindacale per licenziamento collettivo

venerdì 16 luglio 2021
LICENZIAMENTO COLLETTIVO E RISOLUZIONI CONSENSUALI: CAMBIO DI ROTTA DELLA CASSAZIONE LICENZIAMENTO COLLETTIVO E RISOLUZIONI CONSENSUALI: CAMBIO DI ROTTA DELLA CASSAZIONE

Con la sentenza n. 15118 del 31 maggio 2021 la Corte di Cassazione, ribaltando il recente orientamento, ha affermato che la procedura conciliativa prevista dall’art. 7 della L. 604/1966 non va intesa come licenziamento e, pertanto, l’eventuale accordo conciliativo non va computato nel limite dei cinque licenziamenti nell’arco di 120 giorni al fine della sussistenza dell’obbligo di attivazione della relativa procedura di licenziamento.

Secondo i giudici della Suprema Corte, infatti, nel limite dei cinque licenziamenti non possono essere incluse ulteriori ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, sebbene riferibili ad iniziativa del datore di lavoro.

In particolare, la Corte ha osservato che l’espressione “intenda licenziare” di cui all’art. 24 della L. n. 223 del 1991 è una chiara manifestazione della volontà di recesso, pur necessariamente ancorata al fatto che i licenziamenti non possono essere intimati se non successivamente all’iter procedimentale di legge, mentre cosa ben diversa rappresenta l’espressione “deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo” ai sensi dell’art. 7, L. n. 604/ 1966, che è invece imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di conciliazione dinanzi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro, e non può dunque ritenersi di per sé un licenziamento.

IL CASO
Nel caso di specie (Cass. n. 15118/2021), una lavoratrice contestava le pretese ragioni oggettive addotte dalla società per il suo licenziamento ed affermava che nello stesso periodo inferiore a 120 giorni si erano verificate molte altre risoluzioni consensuali e licenziamenti per cui sarebbe stata necessaria l'attivazione di una procedura di licenziamento collettivo.

Il ricorso veniva respinto dal Tribunale, mentre la Corte d'Appello di Trieste qualificava il licenziamento come licenziamento collettivo, accertando l'illegittima omissione della procedura di cui all'art. 24, co.1 quinquies L. n. 223/1991. La società veniva condannata a pagare alla lavoratrice un'indennità pari a 18 mensilità dell'ultima retribuzione globale oltre alle spese del doppio grado di giudizio.

La società si appellava in Cassazione affermando che nell'arco di 120 giorni non sarebbero avvenuti dei licenziamenti ma soltanto delle dichiarazioni dell'intenzione di licenziare ex art. 7 L. 604/1966 e sostenendo l’erronea equiparazione dell’intenzione di recedere (ex art. 7 citato) ad un vero e proprio licenziamento.

La Cassazione, sorprendentemente, accoglieva il ricorso della società riconoscendo che l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla DTL, non può ritenersi di per sé un licenziamento.

Forniva inoltre la propria interpretazione della Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 (in materia di licenziamenti collettivi) affermando che nel numero minimo di cinque licenziamenti - considerato come sufficiente ad integrare l'ipotesi del licenziamento collettivo - non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all'iniziativa del datore di lavoro (Cass. n.15401/2020, Cass. n. 1334/2007).

Un tale giudizio è in totale contrapposizione con l’indirizzo del Ministero del Lavoro per il quale, nel caso in cui vengano attivate più di quattro istanze di conciliazione secondo l'articolo 7 legge 604/1966 si rientra nella procedura di licenziamento collettivo con relativi obblighi di informativa e accordo con le rappresentanze sindacali.

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